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Siwa, un'oasi verde nel deserto brullo

Sveglia presto questa mattina, ci aspettano cinque ore di viaggio. Carichiamo bagagli e attrezzature e ci muoviamo alla volta dell’oasi di Siwa.
Ci lasciamo alle spalle la costa mediterranea e ci inoltriamo nel deserto, seguendo una lunga pista che sembra non finire mai.
Il paesaggio è monotono, brullo e non ha nulla di bello, è una distesa desertica sassosa e pallida, intervallata da qualche punto di controllo di polizia. Incontriamo un solo villaggio abbandonato e viene da chiedersi come qualcuno abbia potuto pensare di vivere qui, in un luogo senz’acqua e, di conseguenza, senza vegetazione che faccia un po’ d’ombra nelle torride giornate egiziane.
A metà del nostro tragitto ci fermiamo in un punto di ristoro che si chiama Amo Said. Mentre ordiniamo del caffè andiamo a curiosare nello spaccio, piccolo ma super fornito. C’è un po’ di tutto, dai biscotti alle latte di olio, ai generi per l’igiene personale, tutto ciò che può servire a viaggiatori come noi, ma soprattutto ai camionisti che percorrono queste infinite tratte desertiche.
Ci rimettiamo in marcia e dopo altre due ore abbondanti intravediamo in lontananza il verde dell’oasi.
Rimaniamo colpite dalle strade polverose in terra battuta e dall’abbondanza delle palme da dattero. Oggi è venerdì, giorno di preghiera, gli uomini indossano prevalentemente la tradizionale tunica, e in giro si vedono moltissimi bambi.
Arriviamo al campo base per l’ora di pranzo, come da programma e nelle ore più calde della giornata rimaniamo all’interno del resort, portandoci avanti con il lavoro.
Quando la temperatura si fa meno torrida, ci avviamo verso Gebel el Matwa, la montagna dei morti, un’altura calcarea che accoglie tombe risalenti alla XXVI dinastia e al periodo tolemaico. Facciamo giusto un paio di scatti perché il sito oggi che è giorno di festa, non è visitabile, era già in programma di dare solo un’occhiata e vederlo con la giusta attenzione domani.
Ci avviamo verso il cuore della città dove si trova il nucleo originario dell’abitato, la cittadella fortificata di Shali che risale al XIII secolo. Per difendersi dagli attacchi dei predoni, gli abitanti dell’oasi edificarono possenti mura, all’interno delle quali costruirono le loro abitazioni che si sviluppavano in altezza, proprio per poter rimandare al sicuro all’interno della cinta muraria
Sono realizzate in un materiale chiamato karshif, un amalgama di fango, argilla e sale. All’inizio del secolo scorso, un’anomalia meteorologica portò tre giorni di pioggia battente che causò ingenti danni alle abitazioni, costringendo gli abitanti ad abbandonarle definitivamente.
La cittadella aveva in origine una sola stretta porta d’ingresso, in modo tale da non permettere ad eventuali nemici di attaccarla, entrando in massa, controllando al contempo, che nessuno uscisse nelle ore notturne.
Le ragazze del team salgono fino alla sommità, godendo di un inaspettato panorama; lo sguardo corre dai vicoli stretti dell’abitato ai lagni salati che si distendono al limitare dell’oasi, hanno già deciso cosa vogliono vedere domani.
La cena riserva una sorpresa, una specialità locale chiamata abu mardam;
pollo e manzo vengono cotti su una griglia posta sotto alla sabbia, il risultato è una carne bel cotta, saporita e dal leggero profumo affumicato. Per la brace si usa un aromatico legno di ulivo.

Dal diario di Chiara

 
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